Il sito storico della Rocchetta a Borgo Valsugana

Il sito storico della Rocchetta a Borgo Valsugana

Il sito storico della Rocchetta a Borgo ValsuganaCom’è noto, la guerra iniziò nell’estate del 1914 con il richiamo di decine di migliaia di soldati trentini, che vennero inviati sul fronte russo, in Galizia. Il fronte italo-austroungarico, infatti, si aprirà solo l’anno seguente ed allora lo stesso territorio trentino diventerà fronte aperto e teatro di combattimenti.

Già nel primo anno di guerra, tuttavia, le conseguenze per il territorio trentino furono durissime. Migliaia di caduti, di prigionieri, di dispersi. Il terrore di partire per la guerra, per una zona poco conosciuta, di lasciare i propri cari. E dall’altra, la disperazione di non sapere, di non avere notizie.

Ma accanto a tutto questo, alle vicende personali, non vanno dimenticate le dinamiche internazionali, i cambiamenti sociali, la dimensione globale di questo avvenimento. La guerra infatti è stata un evento traumatico, che ha segnato profondamente il nostro territorio e la vita dei suoi abitanti. Ma anche un evento di portata globale, con cause molteplici e conseguenze fondamentali.

Dal 26 ottobre 2014 è visitabile il sito storico legato al fronte italo-austroungarico durante la Prima guerra mondiale La Rocchetta”, sopra Borgo Valsugana, recentemente recuperato grazie all’intervento del Servizio ripristino della Provincia Autonoma di Trento. Uno spazio destinato a diventare il cuore di manifestazioni legate al commosso ricordo dei tanti che parteciparono, come soldati e come civili, a quel terribile conflitto.

La località è raggiungibile in auto (posteggio per max. 50 posti presso il Vivaio – direzione Val di Sella) o a piedi (30 min da Borgo e 20 da località Caracco). Maggiori informazioni sulla pagina Facebook dedicata: https://www.facebook.com/LaRocchettaBorgoValsugana.

La drammatizzazione teatrale eseguita in occasione dell’inaugurazione è stata composta di spezzoni di uno spettacolo più ampio, che ha debuttato in maggio a Calceranica, dal titolo SUL FRONTE DEI RICORDIE’ stato scritto da Stefano Mosele prendendo spunto dal libro “Lettere dal Fronte” ed è il frutto di un laboratorio teatrale realizzato in collaborazione con lo Spazio Giovani di Levico Terme, a cura e con la regia di Lorena Guerzoni . Le musiche sono eseguite dal vivo dal gruppo ETEREOGENEA.

Lo spettacolo è incentrato sulle emozioni di un ragazzo, che attraverso le lettere del nonno ritrovate in soffitta rivive i momenti della guerra nella sua mente, associando personaggi immaginari ai volti della sua famiglia. Sono quindi scene che si svolgono direttamente sul fronte, ricche di malinconia, di paura, di disperazione e di speranza. Un mix di emozioni forti e di vita realmente vissuta, tutto rappresentato da attori che mettono in scena la loro passione per il teatro.

PER GENTILE CORTESIA DEL SISTEMA VALSUGANA ORIENTALE E DELL’AUTORE, ECCO LA PRESENTAZIONE DEL SITO REDATTA DAL DOTT. LUCA GIROTTO.
IL DOSSO DI SAN GIORGIO O “ROCCHETTA” NELLA GRANDE GUERRA

 

Con l’inizio del conflitto, a partire dal 24 maggio 1915, le truppe italiane avviarono in Valsugana una lenta ed inizialmente incontrastata avanzata. Le forze austriache, troppo esigue per potersi opporre all’offensiva dell’atavico nemico meridionale, in questo settore si erano infatti ritirate su una linea, scarsamente rinforzata ed ancor meno presidiata, che tagliava la valle all’altezza dei laghi di Levico e Caldonazzo, appoggiandosi a sud al monte Cimone (sopra Caldonazzo) ed allacciandosi alla cintura corazzata degli Altopiani all’altezza del forte di cima Vezzena (Spitz Verle, o Pizzo di Levico). Il colle di Tenna rappresentava la connessione della linea trincerata con il nodo del Panarotta, dal quale lo schieramento austroungarico proseguiva in direzione nord-est lungo il crinale principale della catena del Lagorai. La conca di Borgo e i dossi della Rocchetta, a sud, e del Ciolino, a nord, rimanevano nell’ampia “terra di nessuno” percorsa quotidianamente dalle pattuglie delle due parti: solitamente a giorno inoltrato quelle italiane, nelle ore notturne quelle austriache. Il Ciolino, in particolare, sin da prima dello scoppio della guerra era stato oggetto di modesti lavori di fortificazione da parte degli imperiali, con l’impiego anche di manodopera civile (“operai militarizzati”) e con attività concentrate soprattutto attorno alle rovine sommitali di Castel San Pietro: proprio qui i drappelli scesi dal Salubio installavano i loro osservatori durante la permanenza in valle. Nulla venne invece preventivamente realizzato sul dosso di San Giorgio (localmente “la Rocchetta”), dove solamente i vetusti ruderi della “toresèla” (il medievale “castelare”, fortificazione vescovile ricordata già nel 1300 e situata sul dente roccioso del crinale nord del rilievo) testimoniavano le scarse modifiche antropiche fino ad allora operate sull’ambiente.
La lentezza con la quale gli italiani avanzarono permise ben presto alle forze imperiali di spostare più in avanti le loro posizioni, all’altezza di Novaledo. Ma la bassa Valsugana non vide inizialmente l’evacuazione forzata delle popolazioni: le autorità militari asburgiche si limitarono a consigliare alle comunità di spostarsi temporaneamente verso l’interno della Monarchia, cosa che ben pochi inizialmente accettarono, mentre la deportazione forzosa interessò solamente gli elementi “politicamente inaffidabili” ed in qualche caso le loro famiglie.
Tezze venne occupata dai bersaglieri italiani avanzati da Primolano sin dal secondo giorno di guerra, mentre Grigno vide entrare i fanti piumati solo il 30 maggio. Nei giorni precedenti era già stata occupata la conca del Tesino con i suoi tre villaggi. Ospedaletto sarà raggiunta il 5 giugno. Saranno poi necessari oltre due mesi per poter assistere ad una ulteriore avanzata: il 15 agosto le forze italiane arrivarono all’argine sinistro del torrente Maso, stabilendosi nei paesi di Bieno, Strigno, Scurelle, Villa-Agnedo, Ivano-Fracena, Samone e Spera.
Solo con lo sbalzo offensivo del 24 agosto 1915 si arrivò poi all’occupazione di Borgo, Olle, Castelnuovo, Telve, Telve di Sopra e Carzano. In quella giornata, alla fanteria italiana avanzante sul fondovalle si unì una colonna risalita da Ospedaletto per la val Coalba tra Civeron e Ortigara: da qui il reparto discese su Olle e puntò poi su Borgo ricevendo occasionali raffiche di fucilate da un distaccamento austriaco di una ventina di uomini attestato sulla sommità della Rocchetta. Questo minuscolo drappello si dileguò però velocemente risalendo al colle di San Lorenzo non appena, quello stesso pomeriggio, una compagnia italiana puntò per via della Fossa su Piagaro cercando di aggirare e catturare il fastidioso manipolo.
Con la fine dell’estate e per tutto l’autunno-inverno del 1915, dopo che le linee italiane si erano gradualmente spostate ad ovest sul fondovalle fino a giungere all’altezza di Marter e di Roncegno, la completa occupazione (con l’eccezione dell’ultima propaggine occidentale, monte Carbonile) della cresta dell’Armentera, rese il dosso della Rocchetta una posizione di assoluta retrovia. Il sovrastante colle di San Lorenzo ne limitava grandemente il campo d’osservazione, circoscritto alla montagna di Roncegno ed ai monti a nord della Valsugana, ma il rilievo venne comunque ritenuto idoneo ad opere di fortificazione destinate ad essere incorporate nella linea difensiva arretrata che dall’Armentera scendeva, per San Lorenzo, San Giorgio e via della Fossa, fino alla stazione ferroviaria di Borgo per risalire poi sulla cresta di Telvana sin alla sommità di monte Ciolino. La linea avanzata calava invece dall’Armentera verso nord alla sella di malga Puisle e di qui in valle lungo la cresta di monte Zaccon.
La calcarea cresta rocciosa sommitale del dosso di San Giorgio si rivelò facilmente scavabile da parte del genio militare italiano, cosicchè sul rilievo già a fine anno erano state approntate varie caverne d’artiglieria destinate ad accogliere pezzi da campagna (cannoni da 75 mm) ad elevata cadenza di fuoco. Una serie di piazzole all’aperto venne realizzata dietro la cresta all’inizio del 1916, per accogliere una batteria di quattro vecchi cannoni da 149 G (ghisa). Quest’ultima, con discreti risultati in termini di potenza di fuoco e di precisione di tiro, assieme alle artiglierie campali incavernate nei pressi prese parte ai combattimenti sviluppatisi sulla montagna di Roncegno, intervenendo in particolare nell’aprile 1916, durante la famosa battaglia di Sant’Osvaldo.
Quando le operazioni iniziali dell’offensiva austriaca del maggio 1916 (la nota “Strafexpedition”) portarono al collasso la linea italiana alla testata della val di Sella, la caduta in successione del Sasso Alto, del Col della Stanga, dell’Armentera e di San Lorenzo, unitamente all’abbandono del monte Zaccon ormai minacciato su tre lati, portò nuovamente in prima linea il dosso della Rocchetta. Era il 20 maggio: appena due giorni avanti le artiglierie erano state frettolosamente messe in salvo e la posizione era presidiata da una compagnia di anziani soldati della milizia territoriale supportati da tre compagnie di fanteria del 32° reggimento (brigata Siena); alle 23.00 del giorno 21, sotto la pressione degli austriaci risalenti da maso Piagaro e di quelli in trionfale discesa da San Lorenzo, sia la fanteria che i disorientati territoriali, privi di ordini precisi, male armati e peggio addestrati, si sbandarono rapidamente, abbandonando i caposaldi e le trincee per fuggire in direzione di Castelnuovo.
In poche ore la Rocchetta era ritornata austriaca, ma l’avanzata imperiale in Valsugana non si arrestò a questo punto: nelle giornate successive gli austriaci progredirono lungo il Brenta fino alla confluenza del Maso ed oltre, giungendo il 26 maggio ad occupare monte Civeron. Alla fine del mese la linea austroungarica si era ormai stabilizzata sull’argine destro idrografico del Maso e sul Civeron, da dove si collegava alle posizioni di monte Ortigara sull’Altopiano dei Sette Comuni. Borgo, Olle, Telve, Telve di Sopra e Torcegno divennero immediata retrovia del fronte, Carzano e Castelnuovo si trovarono in prima linea, mentre Roncegno ospitò i comandi delle grandi unità che presidiavano la valle. Dall’altra parte, gli italiani si rafforzarono sulla linea delineata dall’argine sinistro del Chieppena, mantenendo avamposti a Spera ed alla stazione ferroviaria di Strigno-Agnedo, abbarbicandosi nel contempo alle balze orientali del Civeron. Tutti i villaggi, in previsione dello svilupparsi dei combattimenti, avevano visto il forzoso esodo delle popolazioni già a fine maggio, quando i comandi italiani avevano deciso di liberarsi dell’ingombrante presenza dei civili per fare della Valsugana che avrebbero eventualmente dovuto abbandonare una vera e propria “terra bruciata”. Intere comunità avevano pertanto dovuto avviarsi, dapprima a piedi e poi per ferrovia, verso Bassano e da qui erano state disperse in tutta la penisola, fino alla Sicilia ed alla Sardegna senza trascurare Calabria, Piemonte e Liguria.
Con la suaccennata disposizione dei due schieramenti sul fondo di Valsugana, il dosso di San Giorgio si veniva a trovare, palesemente, in una situazione tatticamente assai poco rilevante: per gli austriaci avrebbe potuto fungere da postazione d’artiglieria, è vero, ma i ripidi versanti occidentali della cresta mal si prestavano alla realizzazione di piazzole allo scoperto ed anche lo scavo di postazioni in caverna sarebbe risultato assai difficoltoso. D’altro canto, le trincee abbandonate intatte dagli italiani avrebbero potuto essere riutilizzate, ma la distanza dalle prime linee era eccessiva per non minarne l’utilità. E la funzione di osservatorio sul fondovalle e sulle posizioni italiane a nord del Brenta era ottimamente svolta dal ben più elevato monte Civeron, nonché dagli insediamenti del Ciolino, del Salubio e financo dell’Ortigara. Finì che sulla Rocchetta gli austriaci installarono solamente un potente riflettore, protetto di giorno in una caverna già italiana e con l’imbocco opportunamente mimetizzato presso la sommità; di notte, grazie ad un binario a scartamento ridotto, il proiettore luminoso veniva portato avanti, sul lato di Olle, da dove il suo fascio instancabilmente ispezionava la terra di nessuno nella conca a sud di Scurelle fino all’argine del Chieppena.
La villa Bortolotti, presso la cappella di San Giorgio, nonostante la sua posizione esposta al tiro delle artiglierie italiane del Lefre, venne scelta come residenza da alcuni ufficiali austriaci, mentre a maso Piagaro prese alloggio il comando della 181ª brigata di fanteria a-u.
Le linee consolidatesi a metà del 1916 rimasero più o meno stabili fino al novembre 1917 e nemmeno i minacciosi eventi connessi con la cosiddetta “notte di Carzano” (17/18 settembre 1917) sconvolsero la routine di quella che era ormai una tranquilla postazione arretrata. Le cose cambiarono invece radicalmente ai primi di novembre di quello stesso 1917, quando i sommovimenti strategici determinati dalla battaglia di Caporetto imposero alle forze italiane l’evacuazione dell’intera Valsugana orientale. La Rocchetta venne a quel punto abbandonata senza troppi rimpianti dai reparti austriaci, destinati peraltro a dissanguarsi successivamente sui dolci declivi del monte Grappa e nell’angusto canyon del Canal di Brenta fino al crollo finale del novembre 1918.
Nel primissimo dopoguerra, con il ritorno della popolazione civile dal profugato in Italia ed in Austria, iniziò per pura e semplice necessità di sopravvivenza la prima triste “stagione dei recuperanti”: per vendere a peso i metalli pregiati rimasti sui campi di battaglia sottoforma di proiettili, armi ed equipaggiamenti, nonché per recuperare materiali da costruzione da impiegare nella riedificazione dei paesi distrutti, intere famiglie di olle e di Borgo “assaltarono” letteralmente le posizioni che per tre anni e mezzo avevano visto fronteggiarsi italiani ed austriaci: la Rocchetta, appena sopra i predetti centri abitati, era nella posizione ideale per costituire la prima “vittima” di questo recupero che arrivò in pochi anni a cancellare quasi totalmente le tracce di quello che per il Trentino fu il passaggio epocale del secolo appena trascorso.

Pubblicato da Daiana Boller

Daiana Boller (Trento, 1981) si è laureata in storia locale con una tesi sul principe vescovo di Trento Alessandro di Masovia (1423-1444) ed è autrice del libro "Welschtirol".

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